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giovedì 4 novembre 2010

IRVINE WELSH ALL'AUDITORIUM

Apprendo per caso la notizia. Irvine Welsh su un palco a Roma. Intervistato da Massimo Bocchiola, il suo traduttore ufficiale e di altri autori tipo Auster, Bukowski e Kerouac. Un annoiato pomeriggio di navigate a zonzo tra siti letterari e blog di ogni sorta si trasforma in un episodio unico. Incontrare il proprio scrittore preferito, vederlo dal vivo e ascoltarlo rispondere alle domande di 'uno dei nostri' e non del solito giornalista che legge prime e ultime di copertina e, sì, è quello di Trainspotting. Il luogo è intrigante, l’Auditorium di Roma, dove l’acustica e la comodità sono messi in primo piano. Si pagherà un biglietto, penso e spero, altrimenti mancando appena un mese non ci sarà più spazio di sicuro. Mi precipito alla biglietteria nel primo momento utile e scopro che il prezzo della serata è appena di due euro. Arma a doppio taglio. In uno stadio sarebbe un costo fortunato ma in una sala chiusa invece diventa un pericoloso motivo per rimediare un posto sfortunato. Lontano e defilato. Il caso vuole che i pochi rimasti siano invece non troppo distanti dal palco. Sono così felice che ne prendo otto, quelli della fila che rimangono. Al massimo, se nessuno verrà con me, neanche la mia compagna, ipotesi improbabile, avrò la comodità di sette posti liberi vicini. I biglietti li sistemo in un cassetto ma prima li guardo un’ultima volta. Sembra incredibile che sia così entusiasta di una manifestazione su un palco diversa da un concerto.
Il teatro, se non è concentrato di azione e comicità, mi annoia. Figuriamoci un’intervista. I giorni passano cerchiandoli sul calendario fino a quello con la X. Ventisei Marzo del Duemiladieci. Ore Ventuno. La fila è la Tredici, di questo numero si può dire che porta bene o male, ma perché pensarci, non sto mica chiedendo niente alla fortuna. La mia compagna, nonché convivente torna a casa a pezzi, ha quelle cose che le donne subiscono una volta al mese. I cattolici dicono per colpa della mela e del serpente mentre gli scienziati per la natura umana. E’ distrutta e non è possibile muoverla da casa. Pazienza, a malincuore mi toccherà andare da solo e comunque ad aspettarmi ci saranno amici con sei posti piazzati. Il biglietto in più servirà a tenere spazio tra noi e il resto della fila. Roma a fine marzo è un incanto, con un clima benevolo e una voglia metropolitana di svernare. L’appuntamento è al bar dell’Auditorium, dove mi chiedo sempre a chi è che viene in mente di comprare cioccolata costosissima prima di uno spettacolo. Mi siedo a un tavolo e aspetto. Gli amici arrivano a coppie, ma ne manca una, dispersa come i piccoli due euro spesi per loro. Il bicchiere mezzo pieno sta nel fatto che avrò tre posti in più per stare comodo. La compagnia ci perde qualcosa ma la comodità è un lusso che non credevo di permettermi. Uno spritz ben fatto si fa sorseggiare mentre chiacchieriamo e sfogliamo la mia copia di Trainspotting. Sì, l’ho portato e chiederò un autografo, un quasi quarantenne tra i ventenni, ma, come scriverebbe Irvine, ‘chissenefrega’. Ero indeciso se portare l’intera collezione, ma non sarebbe bastato uno zaino e poi non avrei scovato la faccia nel mio repertorio per un azzardo simile. Volti in bianco e nero sfilano appesi sulle mura dell’imponente corridoio che conduce alla Sala Petrassi. Fotografie scattate a scrittori e artisti che hanno spiegato il loro punto di vista a platee di curiosi come noi. E’ affascinante svelare come la pensa chi ti ha fatto sognare, piangere e ridere senza nemmeno conoscerti. IRVINE WELSH: COME SCRIVO. Eccoci qua. Le maschere ci indicano la strada per la fila giusta. Mancano pochi minuti alle nove e la sala è piena. I posti sono meno comodi di quello che ci aspettiamo e quei tre in più si trasformano in una manna contro l’eccessiva vicinanza del prossimo. Luci spente in platea e accese sul palco. Due sedie e un tavolino. Una donna compare dalle quinte e si accomoda accavallando le gambe. Ci deve essere uno sbaglio. Non siamo in uno dei suoi racconti e quindi il Bocchiola non ha cambiato sesso. La donna con le gambe accavallate adesso impugna un taccuino. Sì, è l’intervistatrice e noi una marea di presi in giro. Compare un vichingo dalla testa pelata. E’ Welsh, più alto e più grosso di quanto sembrava al cinema in quel cameo di Trainspotting, dove a Renton, cioè l’attore Ewan McGregor, spaccia due supposte di eroina che poi finiscono insieme alla costipazione in un water orrendo. E’ un vichingo. Il passato da hooligan ne avrà di certo tratto vantaggio. In una rissa senza regole farebbe la sua porca figura. In sala scroscia un applauso fragoroso. Welsh ringrazia. Ha in mano un bicchiere di vino che poggia sul tavolo, poi si siede e aspetta le domande. La donna lo presenta, come se ce ne fosse il bisogno, rivelando una erre moscia radical-chic come i suoi vestiti e le sue movenze. Sarà la solita intervista, probabilmente è un critico letterario, magari è anche brava, malgrado appartenga a una categoria bistrattata da editori, scrittori e lettori. Ho intorno a me tre posti liberi, quindi, anche se sarà una solfa di citazioni, paroloni, correnti letterarie e domande dal sapore didascalico, potrò godermi lo stesso il pensiero del mio scrittore preferito. Sbagliato. Una maschera si apposta minacciosa alla fine delle poltrone, alle sue spalle si avvicina in fretta un gruppo di ritardatari. Non c’è più tempo per cercare i posti giusti, si va ai primi disponibili, anche se sono stati comprati da qualcun altro. Mi ordina sottovoce di spostarmi e lasciare spazio ai nuovi arrivati. Irvine Welsh intanto sta rispondendo a un polverone di parole alzato dalla giornalista tra giornali francesi, scrittori che non riescono a scrivere da drogati e movimenti letterari. Figure scure si accomodano proprio accanto a me. Ho la giacca piegata sulla pancia. Il più vicino allarga subito un gomito e le sue scarpe da ginnastica puzzano. Welsh parla degli scozzesi, li ama si capisce, ne racconta la cadenza dei discorsi, perfettamente inquadrabile in un tempo musicale conosciuto come ‘quattro quarti’.  Al pub, per strada o alla fermata dell’autobus è stregato dal ritmo che la gente di Edimburgo esegue per dire qualcosa. L’intervistatrice, come nel migliore dei cliché, passa a citare l’ultimo libro uscito da poco tempo, cioè lo promuove. Welsh parla impostato come un robot perché è un argomento che avrà affrontato chissà quante volte negli ultimi mesi. ‘Crime’, s’intitola. Diversamente dai precedenti, nell’ultimo romanzo si è molto lasciato andare alle descrizioni trattando un tema importante come la pedofilia. Il vicino di poltrona intanto si agita e cerca di impossessarsi del bracciolo ma io non mollo e questo provoca un grosso spostamento d’aria che lancia il fetore delle sue scarpe fino al mio olfatto. Una tortura cinese. Se sto fermo mi frega il bracciolo e se mi muovo mi avvelena con la puzza. L’intervistatrice spazia da un libro all’altro andando a ritroso nella carriera dello scozzese. Esce fuori poco del punta di vista di Welsh, quello sano e intenso, che tutti vorrebbero sentire. Tutti in sala, non so l’intervistatrice, hanno letto i libri di Welsh. Il capolinea è Trainspotting, dove la donna chiede il rapporto di Irvine con le droghe. Lui sfodera un sorrisetto da bambino cattivo e l’intervistatrice è contenta perché, uscita dalla fascia protetta, ha avuto anche il momento scabroso. Parla della droga in maniera impostata e programmata ed è meglio leggerlo nei libri che sentirlo dal vivo perché per farlo sbottonare servirebbero due o tre pinte e una situazione decisamente meno pubblica. Poi finalmente qualcosa d’interessante e poco noto esce fuori. Welsh tiene seminari di scrittura. Poi spiega che inizia una storia e subito pensa al finale. Si chiede se è credibile e poi lo passa all’editore che lo critica nei punti che ritiene opportuno. Il tempo sta scadendo e non sarebbe male per il puzzo del vicino ma non è bene perché non sono soddisfatto. Forse me lo sono immaginato solo io ma speravo che ad alzata di mano avremmo domandato qualcosa di personale allo scrittore. La presentatrice sazia di domande e di risposte congeda la serata ringraziando Welsh. All’uscita siamo tutti ad aspettarlo per l’autografo. Eccolo il vichingo. Un amico più intraprendente di me salta la fila e lo punta per primo, la fila rumoreggia ma nessuno si lamenta, Welsh mette una firma sotto al mio nome che neanche si capisce una lettera. E’ scozzese e ci chiama ‘mangiaspaghetti’. Un motivo ci sarà pure.

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